
A cura di Salvatore Sinagra
Lo scorso 8 aprile, nella “sua” Sarajevo è morto ad 84 anni Jovan Divjak, il più noto tra i serbi che nella guerra di Bosnia si schierarono a difesa di Sarajevo e contro Milošević. Divjak è stato un uomo amatissimo in occidente e dai sarajevesi, è stato spesso osteggiato dai vertici dello stato bosniaco, era considerato un criminale di guerra in Serbia. Nel 2011, di passaggio a Vienna per recarsi in Italia, fu arrestato su richiesta delle autorità serbe, dopo pochi giorni fu scarcerato su cauzione, ma fu trattenuto in Austria per diversi mesi. In Italia, uno dei paesi a cui Divjak era molto legato, era molto noto per il libro Sarajevo, Mon Amour, scritto con la giornalista Florence La Bruyère e con prefazione di Paolo Rumiz nell’edizione italiana.
Divjak nacque e crebbe a Belgrado da genitori di origine bosniaca e serba, entrò nell’Armata Popolare Jugoslava (JNA-Jugoslovenska Narodna Armija) di cui arrivò ad essere colonnello, poi dopo diverse esperienze tra cui un periodo passato in Francia, gli fu assegnato il comando della difesa territoriale di Sarajevo. Nel 1992 abbandonò non senza sofferenza la JNA, quando scelse di difendere la Bosnia aggredita e di entrare nel neocostituito esercito della Bosnia Erzegovina, l’Armija, di cui divenne generale e numero due.
Racconta in un libro un amico che ha incontrato Divjak a Sarajevo che restò meravigliato dal numero di persone che per strada si fermavano a salutarlo, a stringergli la mano e ad augurargli una buona giornata. Eppure in vita Divjak fu osteggiato anche dai bosgnacchi che difese. Ricorda infatti proprio in Sarajevo, Mon Amour che nel 1996, poco dopo gli accordi di Dayton, apprese dalla televisione di essere stato messo in pensione.
Abbandonò la JNA, che era stata una parte importantissima della sua vita, perché riteneva avesse perso la sua caratteristica di esercito multietnico e avesse abbandonato la sua missione: difendere tutti gli jugoslavi. Era un nostalgico della Jugoslavia multietnica, qualcuno lo accusava si essere un nostalgico di Tito. Divjak diceva che Tito non fu un dittatore. Leggendo il suo più importante libro mi sono spesso chiesto se la sua stima nei confronti dell’autocrate jugoslavo non fosse eccessiva e scomposta, ho poi concluso che forse, come molti cittadini dell’ex Jugoslavia che certo non sono antidemocratici, Divjak aveva una immensa riconoscenza nei confronti di Tito, che fino alla sua morte riuscì a preservare la Jugoslavia dalle tensioni etniche, dalla guerra e dal caos. Amava raccontare che a Sarajevo viveva benissimo con i suoi vicini di casa musulmani a pochi passi da una moschea e da una chiesa ortodossa e non lontano da una chiesa cattolica. Spesso ricordava che i serbi avevano un esercito molto più forte del neocostituito esercito bosniaco, eppure Sarajevo non capitolò nonostante un assedio di 1.260 giorni. Questo perché contro ogni pronostico la città non si svuotò e perfino molti serbi rimasero a difenderla.
Era durissimo nel criticare tutti i nazionalismi che avevano distrutto la Jugoslavia, considerava il presidente serbo Milošević un piccolo leader che viveva nel complesso di inferiorità di Tito, il presidente croato Tuđiman un uomo capace ma amico dei fascisti ustaša, i serbi di Bosnia Karadžić e Mladić espressione di un mondo rurale troppo distante da Sarajevo. In particolare accusava Karadžić di aver avuto tutto da Sarajevo, dove aveva studiato ed era diventato psichiatra, e poi di essersi adoperato per distruggerla.
Quando decise di passare all’Armija, che nella sostanza era l’esercito bosgnacco, i suoi detrattori serbi dissero che si era convertito all’islam ed era diventato un fautore del nazionalismo musulmano, eppure Divjak fu altrettanto netto nel contestare il nazionalismo musulmano come era stato netto nell’accusare i serbi di Milošević di aver tradito gli ideali della Jugoslavia. Diceva che i corpi paramilitari bosniaci non erano paragonabili alle tigri di Arkan, ai Cetnici o alle Aquile Bianche, perché erano gruppi che si erano costituiti per difendersi dall’aggressore, eppure non negava avessero dentro di tutto: persone per bene, mascalzoni, e perfino criminali che si divertivano a terrorizzare serbi e croati. Diceva del leader dei musulmani bosniaci Alija Izetbegović che inizialmente aveva una lodevole idea di Bosnia democratica e multietnica, poi si comportò sempre più come leader del suo partito conservatore e nazionalista musulmano e sempre meno come uomo delle istituzioni di tutti i bosniaci. Ad esempio collocò, ai vertici delle società partecipate, uomini del suo partito e concesse troppo spazio ai religiosi musulmani. Non esitò a denunciare la tolleranza di Izetbegović nei confronti di alcuni “boss” di corpi paramilitari bosgnacchi. Leggendo le sue memorie rimane un dubbio: fu emarginato da Izetbegović perché i soldati bosgnacchi non si fidavano di lui o perché era diventato troppo scomodo?
Denunciava il fatto che la buona stampa bosniaca esistente prima della guerra era stata sostituita da giornali nazionalisti. Contestava inoltre duramente gli accordi di Dayton, che affermava avessero di fatto istituzionalizzato la pulizia etnica, fondò un’associazione chiamata l’istruzione costruisce la Bosnia Erzegovina, che negli anni ha erogato borse di studio a orfani di guerra, indigenti e rom; si scagliava duramente contro la cattiva istruzione, quella regolata da tre programmi diversi per croati, serbi e musulmani di Bosnia, che di fatto ha ucciso la Bosnia multietnica.
Divjak è, per molti, il generale serbo che difese Sarajevo dai serbi, ma come scrive bene lo storico Eric Gobetti, non vorrebbe essere ricordato in questo modo. Viveva una vita molto semplice nella sua Sarajevo, e a chi lo chiamava generale rispondeva che i generali “vanno in giro in Mercedes”. Inoltre Divjak, come si diceva sopra nato a Belgrado in una famiglia di origini serbe e bosniache, diceva che finché esistette la Jugoslavia fu jugoslavo, poi si è sempre considerato bosniaco. No, non ricordiamo Divjak come il serbo che difese Sarajevo dai serbi, ma come un sarajevese che difese i valori della Jugoslavia multietnica anche quando capì che dopo la guerra nulla sarebbe più ritornato come prima.