Il Servizio sanitario lombardo al tempo del Covid-19

Aldo Silvani

Aldo Silvani (CESPI) riflette sulle difficoltà del sistema sanitario regionale della Lombardia, durante il difficile periodo della Pandemia. L’autore riflette sulla strutturazione del sistema sanitario regionale, sull’orientamento prettamente ospedale-centrico e sul mancato sviluppo della sanità territoriale.

Si tratta, tuttavia, non solo di una riflessione sulla situazione attuale, ma sullo stato dell’evoluzione del sistema sanitario che ha il merito di fornire una prospettiva storico-politica della Sanità pubblica, mettendo in luce gli aspetti critici e fornendo, altresì, gli strumenti per indirizzare un cambiamento positivo del sistema sanitario regionale.

Il Servizio sanitario lombardo al tempo del Covid-19 di Aldo Silvani – gennaio 2021

Il fallimento dell’organizzazione sanitaria lombarda nell’affrontare la pandemia è testimoniato dal numero di decessi attribuito al Covid-19 che nella nostra regione è percentualmente notevolmente superiore al dato nazionale e, anche se non esistono dati forniti dalle istituzioni internazionali, la Lombardia è una delle regioni con il più alto numero di decessi in Europa. Il dato lombardo dopo l’esaurimento della prima ondata di contagi nell’estate 2020 era di 167 ogni 100.000 abitanti contro il dato nazionale di 58 ogni 100.000 abitanti. Il dato riferito all’intero periodo epidemico, dal marzo 2020 al gennaio 2021 è di 266 ogni 100.000 abitanti in Lombardia contro 146 ogni 100.000 abitanti nell’intero territorio nazionale (dati ISTAT). Il fallimento dell’organizzazione sanitaria lombarda ha radici antiche. Hanno concorso a questo esito vari fattori: in primo luogo la gestione lombarda della pandemia; ma è anche conseguenza dei cambiamenti che il nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha subito nel corso degli anni.

Cenni sull’evoluzione del Sistema Sanitario Nazionale dal 1978 ad oggi. 

Il SSN è nato nell’ormai lontano 1978 (legge 833), esito di lotte sociali e sindacali che erano riuscite a superare il sistema delle Casse Mutua e dell’assicurazione INAM per realizzare il dettato costituzionale (art. 32): “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività a garantire cure gratuite agli indigenti…”. La tutela della salute presupponeva una integrazione tra prevenzione, cura, riabilitazione e tra interventi sanitari, sociali e ambientali. La legge 833 stabiliva che, all’interno di un sistema di Welfare, i servizi sanitari dovessero essere finanziati attraverso la fiscalità generale e che ci fosse un legame tra servizi sanitari e territorio attraverso le Unità SocioSanitarie Locali (USSL) e i Distretti Sanitari. Attraverso questi organismi periferici del SSN doveva realizzarsi l’integrazione tra servizi sociali e sanitari; infatti, i Comuni, come portatori delle esigenze di salute dei territori, dovevano svolgere un ruolo centrale attraverso la partecipazione dei consiglieri comunali al governo delle USSL. 

Negli anni successivi il legame tra servizi sanitari e territorio si è spezzato, né ha trovato piena realizzazione la presa in carico complessiva di prevenzione, tutela della salute e cura della malattia. Varie sono state le cause. Una politica sanitaria così ambiziosa, anche se di difficile realizzazione, si è infatti scontrata con governi di diverse tendenze politiche. Vi è stato un insufficiente finanziamento del SSN, prevalentemente indirizzato verso gli ospedali, a discapito della medicina di territorio e di quella post-ospedaliera. 

Nel 1992/1993 le USSL e gli ospedali più importanti vengono trasformati in Aziende e le Aziende ospedaliere vengono scorporate dalle USSL, con obiettivi improntati prevalentemente a logiche di efficienza, produttività e pareggio di bilancio. Solo gli ospedali più piccoli e quindi tecnologicamente meno dotati rimangono all’interno delle Aziende Sanitarie Locali, ma tenderanno successivamente ad essere assorbiti dalle Aziende ospedaliere o a fondersi tra loro in modo da acquisire autonomia. Le istituzioni locali non orientano più le politiche sanitarie; i Comuni perdono infatti il diritto di indirizzo e controllo sulle strutture ospedaliere.  Nel 1992 si introducono forti elementi di privatizzazione con diritto del privato di erogare prestazioni sanitarie non contemplate dal SSN. Le Aziende ospedaliere in piena autonomia gestionale sono finanziate dalla Regione con il sistema DRG (Diagnosis Related Group) che è sostanzialmente un preziario calcolato sul costo della prestazione. L’autonomia gestionale consente loro di privilegiare i DRG più remunerativi indipendentemente dai bisogni di salute di un territorio e dalla programmazione sanitaria. Per reintrodurre criteri che riaffermino logiche di corretta programmazione sanitaria e di tutela della salute, il Dlgs 229/1999 introduce i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), prestazioni e servizi che il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini gratuitamente o dietro pagamento di un ticket, validi su tutto il territorio nazionale. Nei LEA si individuano tre livelli: Prevenzione e Sanità pubblica (sicurezza sui luoghi di lavoro, salubrità degli alimenti, ecc.), Assistenza distrettuale (assistenza sanitaria di base, coordinamento dell’attività dei medici di base con le prestazioni ospedaliere, assistenza farmaceutica, ecc.), Assistenza ospedaliera. Il Dlgs 229 stabilisce che le Aziende sanitarie locali devono assicurare le prestazioni socio-sanitarie ad elevato contenuto sanitario (dipendenze, handicap, malattie mentali, assistenza materno-infantile), il coordinamento dell’attività dei medici di base con le prestazioni ospedaliere e con la rete dei servizi territoriali di prevenzione (medicina del lavoro, consultori materno-infantili, centri di igiene mentale e per le tossicodipendenze). Purtroppo, questo ambizioso progetto non ha trovato piena realizzazione.

Infine, purtroppo, nel 2001 le modifiche del Titolo V della Costituzione che hanno ampliato le autonomie locali, hanno consentito che ogni Regione potesse dotarsi di una propria legge sanitaria, spesso diversa da Regione a Regione. La Regione Lombardia, governata dalla destra, di conseguenza ha potuto varare un Sistema Sanitario Regionale per alcuni importanti aspetti in contrasto con la legge nazionale e per questo applicata in via sperimentale. Si tratta della legge Maroni (LR 23/2015), i cui contenuti contribuiscono a spiegare il diverso impatto del Covid nelle Regioni, impatto disastroso per la Lombardia. L’impostazione “liberista” della legge lombarda mette sullo stesso piano servizi sanitari pubblici e privati (accreditati o no) secondo una competizione di mercato, senza tenere conto del fatto che i servizi pubblici devono anche tener conto delle necessità di salute del territorio e quindi non possono selezionare la casistica, mentre i privati possono scegliere le prestazioni e quindi gli ammalati economicamente più vantaggiosi. Il massiccio ingresso del privato nel SSR, accanto alla aziendalizzazione degli ospedali comporta la preferenza per la produzione di servizi più redditizi, ad esempio i servizi ospedalieri, a danno di quelli a basso profitto, come quelli territoriali, più utili a frenare la diffusione della pandemia. Le Aziende Sanitarie Locali vengono private di compiti assistenziali e vengono nel 2016 trasformate in ATS (Agenzie per la Tutela della Salute) con funzioni burocratico-amministrative. I compiti dei Distretti sanitari su consultori, medicina del lavoro, dipendenze, ecc. vengono accorpati nelle Aziende Ospedaliere. La medicina di base viene ulteriormente sacrificata fin quasi a scomparire.  

L’aumentato potere delle Regioni in campo sanitario rende inefficaci ulteriori tentativi dei Governi di modificare queste normative, anche perché queste nuove norme cadono in un contesto internazionale favorevole. Una autorevole pubblicazione scientifica, The Lancet, scriveva: “La spinta verso riforme dei sistemi sanitari basate sul mercato si è diffusa in tutto il mondo….Questo modello di sistema sanitario è sostenuto dalla Banca Mondiale per promuovere la privatizzazione dei servizi”. A ciò si deve aggiungere per quanto riguarda la Lombardia, la scarsa conoscenza delle problematiche relative alla tutela della salute dei cittadini da parte della classe politica lombarda. In questo contesto il dover affrontare un fenomeno complesso e inaspettato come la pandemia da Covid-19 non poteva che dare risultati disastrosi.

Il Sistema Sanitario Lombardo alla prova della pandemia.  

Per non far diventare l’analisi di ciò che è successo in Lombardia un esercizio puramente intellettuale occorre contestualizzarla all’interno dei problemi che oggi stiamo vivendo. La seconda ondata pandemica del Covid-19, anche più grave della prima, ripropone, in maniera ancora più evidente, la necessità di farsi carico sia di chi è contagiato dal virus, sia della variabilità dei quadri clinici che il virus determina. La malattia da Coronavirus interpella fortemente la clinica, la ricerca medica, la cura, e altrettanto pesantemente, date le dimensioni del fenomeno, il tessuto sociale, la cultura, l’economia. La pandemia non viene vissuta allo stesso modo da chi ne è contagiato. Le differenze economiche, le differenze sociali, le differenze culturali condizionano pesantemente il vissuto di chi deve fare i conti con questa patologia. E tutto questo complesso intersecarsi di elementi interroga pesantemente la nostra organizzazione sanitaria. Rispetto a 30, 40, 50 anni fa molto è cambiato nell’approccio ai problemi della salute. L’organizzazione sanitaria di quei tempi rendeva più facile un rapporto medicopaziente basato sul principio del “farsi carico” della persona ammalata; in cambio però la ricerca medica ha enormemente aumentato il ricorso alle tecnologie diagnostiche e di cura, con straordinari progressi, ma ha causato un cambiamento non proprio indolore nel rapporto cura della malattia/cura del paziente. Il cambiamento investe sia la medicina diagnostica che la medicina ospedaliera, che, purtroppo, anche la medicina di base o di famiglia. I medici di Medicina Generale sono stati svuotati nella nostra Regione di mezzi, di competenze, di contenuti, in seguito a una colpevole disorganizzazione nel coordinamento tra Medici di Medicina Generale e ATS e all’aver caricato gli ospedali di compiti che peraltro gli ospedali non sono in grado di affrontare efficacemente. In epoca di pandemia il risultato è stato il sostanziale abbandono al domicilio dei pazienti con sintomi lievi o moderati ma passibili di peggioramento; anche in questo caso nella Regione Lombardia, si è puntato tutto sugli ospedali senza tenere conto di quanto è compito degli ospedali dare nella cura delle malattie.

È possibile farsi carico di una patologia complessa in un sistema ospedale-centrico?: che cosa è successo in Regione Lombardia? 

Occorre sottolineare che negli ospedali particolarmente, ma nella medicina in generale è in atto una rivoluzione, basata sulle nuove tecnologie, sulla robotizzazione e sull’informatizzazione, rivoluzione già avanzata in Europa, particolarmente negli ospedali tedeschi, ma che sta arrivando anche in Italia e che mette in discussione il senso stesso della cura medica e delle figure del medico e dell’infermiere. La tecnologica sta portando ad un cambiamento radicale nell’affrontare i problemi della salute ad ogni livello dell’attività di cura. La medicina di base, un tempo luogo privilegiato della presa in carico della persona ammalata, portatrice di problemi non solo clinici ma anche sociali, psicologici, conseguenza della perdita della salute, resiste con difficoltà all’urto dell’iperspecialismo. Diventa sempre più smistatrice di problemi diagnostici e terapeutici da affidare alla medicina di secondo livello. Le modificazioni metodologiche nell’approccio ai problemi della salute, riferendoci alla situazione attuale determinata dalla pandemia da Covid-19, hanno avuto un impatto pesante nel modo di affrontare la realtà che stiamo vivendo e che la nostra organizzazione sanitaria si trova a dover affrontare. La necessità di affiancare la cura al “farsi carico” della complessità dei problemi che la pandemia determina è ancora più stringente e più urgente adesso. Il virus colpisce in modo indiscriminato tutte le categorie sociali e tutte le età. Ma le conseguenze dell’infezione non sono uguali per tutti. Esiste una grande differenza tra giovani e anziani, tra chi perde il lavoro e chi no, tra chi vive in alloggi angusti e chi riesce a mantenere il cosiddetto distanziamento sociale, ecc.. Gli effetti di una pandemia variano a seconda non solo del potere patogeno dell’agente infettante ma anche della situazione sociale, economica e culturale del paziente infetto. Che cosa è successo invece in Regione Lombardia, dove le modificazioni subite negli anni dal SSN sono state portate alle estreme conseguenze dal SSR? A causa di un Servizio Sanitario Regionale pensato per una medicina come mercato libero delle prestazioni e quindi aperto al privato, realizzato per di più da politici incompetenti in politica sanitaria, siamo arrivati al disastro che è sotto gli occhi di tutti. La medicina territoriale, di scarso peso economico, è pressoché scomparsa. È venuto quindi a mancare uno dei pilastri indispensabili per affrontare correttamente gli svariati problemi di una patologia così complessa come l’infezione da Coronavirus. La realtà del nostro Sistema Sanitario è sotto gli occhi di tutti quelli che la vogliono vedere. Esiste un grosso squilibrio, particolarmente in Lombardia, tra i vari livelli assistenziali. La malattia è una entità che comporta pesi assistenziali diversi, a seconda della gravità e delle risorse che richiede per essere affrontata. Ma non è solo una questione di pesi e di costi. I vari livelli di gravità esigerebbero livelli assistenziali consoni, proprio per migliorarne la curabilità. Abbiamo visto tutti quello che è successo nelle RSA dove la disorganizzazione, l’improvvisazione, l’ignoranza dei politici della salute e non solo ha prodotto una strage di anziani che avrebbe potuto essere evitata solo che fossero state attuate scelte solamente di buon senso. Non occorreva essere dei geni. Abbiamo visto tutti l’affollamento dei Pronto Soccorso ospedalieri e dei reparti di infettivologia e di Medicina Interna per patologie da Covid che avrebbero potuto essere trattate più efficacemente, solo che fosse esistita ancora una efficiente medicina di territorio, da parte dei medici di famiglia. Abbiamo visto tutti quello che è successo nella Provincia di Bergamo dove l’incompetenza, la superficialità e la disorganizzazione ha prodotto migliaia di morti. Inoltre sappiamo tutti noi medici ospedalieri come l’ospedale, oltre che guarire le persone che necessitano di ricovero, hanno un elevato potere iatrogeno. Negli ospedali ci si può anche ammalare, non solo guarire. Basti pensare alle infezioni nosocomiali che sono le più gravi. Che dire di un ammalato ricoverato ma che ha un livello di gravità tale da poter essere più efficacemente affrontato in altri contesti che contrae una infezione da Pseudomonas, tipico germe ospedaliero, potenzialmente di elevata gravità? Che dire degli allettamenti di necessità degli anziani, data la carenza di fisioterapisti in ospedale, che comporta decubiti e perdita di autosufficienza e autonomia? Gli esempi potrebbero essere molti. Ma cosa è avvenuto nella nostra Regione? Gli ospedali sono stati gravati di compiti assistenziali che non sono in grado di svolgere, non per carenze degli ospedali, ma perché gli ospedali devono istituzionalmente occuparsi di pazienti che necessitano di ricovero ospedaliero per peso assistenziale e per necessità di procedure diagnostiche e terapeutiche che solo un ospedale può dare. Peraltro i medici di base, gli infermieri e gli operatori sanitari, privati spesso di mezzi di protezione dal contagio, hanno pagato un prezzo elevato in termini di decessi da infezione da Covid-19. E’ stata svuotata di contenuti e di possibilità la medicina preospedaliera e postospedaliera. Non mi interessa dare un giudizio sui medici di Medicina Generale. Mi sembra ovvio che in una organizzazione come quella cui accennavo, gli operatori si adattano a quello che viene loro richiesto e a quanto sono in grado di dare. Per non parlare dei costi evidentemente diversi della medicina di base e della medicina ospedaliera. Sappiamo tutti che le USCA, le unità territoriali che dovrebbero coordinare gli interventi e seguire i pazienti di Covid al domicilio sono in Lombardia un programma solo affermato ma non realizzato. Sappiamo tutti chj ha realizzato questo irrazionale servizio sanitario lombardo. E sappiamo perché. L’aver rinunciato al “sociosanitario”, l’aver introdotto massicciamente il privato specialmente nell’assistenza ospedaliera, accreditato o no, ha comportato questi guasti. Ce lo siamo detti molte volte. Lo scollamento tra il “curare” e il “farsi carico” è iniziato quando non si è voluto, o potuto, realizzare i principi su cui si basava il nostro SSN e ha trovato piena applicazione in Lombardia con le leggi volute da Formigoni e Maroni. Poi è arrivata a scontrarsi con questo sistema la pandemia. Ricordo, e ripeto, che il coronavirus determina quadri clinici di diversa gravità. La grande maggioranza dei contagiati sono portatori sani, moltissimi pazienti sono oligo- o pauci-sintomatici, presentano sintomi similinfluenzali, i più gravi presentano polmoniti interstiziali, insufficienza respiratoria e necessitano di terapia intensiva. Una grossa percentuale di questi pazienti non necessita di ricovero ospedaliero. Ma dove sono finite le tanto sbandierate negli scorsi decenni assistenza domiciliare e assistenza domiciliare integrata? Praticamente inesistenti. Una pandemia estremamente contagiosa, con quadri clinici diversificati, con livelli di gravità diversi a seconda dell’età dei pazienti e della presenza di comorbidità, che colpisce un numero enorme di persone, che implica l’isolamento dei pazienti (e dei contatti) dal loro ambiente, dalla famiglia, dagli affetti, che terrorizza chi la contrae, ha un forte impatto emotivo, che necessiterebbe di supporto psicologico. Ora un gran numero di pazienti ha poco altro che l’ospedale cui rivolgersi. Ma l’ospedale non ha mezzi sufficienti per rispondere a queste domande. E non è il suo compito.

L’ospedale non è in grado di “farsi carico” di tutti questi problemi non solo sanitari. L’ospedale deve invece farsi carico anche di tutte le patologie non Covid. E non è in grado di farlo. E’ difficile di questi tempi ottenere prestazioni per patologie non Covid, è pressoché impossibile ottenere tests diagnostici o visite specialistiche con il SSN in tempi ragionevoli. Guarda caso tutto ciò è possibile e in tempi decenti, con il privato a pagamento. Infatti i dati disponibili dicono che in questo periodo sono aumentati i decessi per tumore e per infarto. È evidente che il dover affrontare un problema di così grandi dimensioni avrebbe messo a dura prova anche il più efficiente dei servizi sanitari. Ma l’impressione che se ne ha è che, ai vari livelli istituzionali, in Lombardia si navighi nell’improvvisazione e nell’incompetenza.

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