
Recensione:
La storia della famiglia di Giuliano Trezzi è emblematica della vita di Sesto San Giovanni, e il percorso suo personale e dei suoi parenti è quello che hanno fatto nella comunità sestese migliaia e migliaia di persone: il lavoro alla Magneti Marelli, alla Breda, alla Falck, all’Ercole Marelli era l’identità stessa del luogo e dei suoi abitanti, il valore cui tutti si ispiravano, anche quando combattevano dure battaglie contro “i padroni” e per il sogno del comunismo, tra storie di anticlericalità ma anche di grande religiosità. In questo libro c’è una città che ha condiviso esperienze, che ha vissuto tempi comuni, e poi c’è l’individualità di ognuno, che nel caso di Giuliano si è concretizzata anche nell’esperienza di vita e lavoro in Sud America. Leggere quanto racconta in questo suo diario familiare aiuta a capire cosa ha unito una comunità e cosa ciascuno ha apportato di suo, di differente. Qui sta la ricchezza della vita a Sesto e l’impegno a costruire un futuro all’altezza della tradizione. Per questo è bello che chi ha vissuto queste vicende le racconti ai figli e ai giovani, proprio come fa Trezzi.
Editore: Grafica&Stampa Sas, Milano – Anno: 2013
Reperibile presso il CESPI e online presso Edigitale
I Trezzi, una famiglia militante
Di Giovanni Bianchi
Il libro di Giuliano Trezzi[1] colma una lacuna o forse, più propriamente, apre una pista di indagine e di lavoro. Non fanno infatti difetto per Sesto San Giovanni le biografie dei militanti operai e politici. Basti pensare al “classico” di Giorgio Manzini, Una vita operaia, con l’introduzione di Corrado Stajano, dedicato a Giuseppe Granelli, il mitico Granel, che per quarant’anni ha lavorato alla Falck di Sesto San Giovanni, spendendo l’intera esistenza tra gli stabilimenti dell’acciaieria, l’abitazione al villaggio operaio e la frequentazione del Rondò, da dove partivano le grandi marce solidali. Un pezzettino della nostra storia nazionale e uno scampolo di una vicenda di lotte, di conquiste e di sconfitte del movimento operaio dentro un microcosmo che ha rispecchiato la vita dell’intero Paese, di un’Italia cioè che fu fordista e che poi, sotto la pressione della bulimia finanziaria, si è deindustrializzata troppo e troppo in fretta.
Si aggiunga il Viaggio al centro del lavoro[2]che da’ conto, dentro un’epopea collettiva, dell’impegno durato una vita nel sindacato, ovviamente la Cgil, da Antonio Pizzinato. Non si dimentichi neppure l’intervista a don Luigi Oggioni – Un prete si fa raccontare [3]– che certamente non completa il quadro – che in verità è più simile a un murales – dei personaggi operai che emergono da una vicenda che resta corale, culturalmente pluralista, unitariamente solidale. Senza ovviamente dimenticare le raccolte di biografie collettive e le rassegne fotografiche, in particolare quelle firmate da Tranquillo Casiraghi.
Mancava ancora all’appello la biografia di una famiglia sestese operaia e militante. Vi ha provveduto, con la serietà di una documentazione pari alla levità della parola, Giuliano Trezzi, membro del Direttivo e del Comitato Scientifico del Cespi.
Non manca nel testo l’approccio genealogico, centrale piuttosto nelle culture africane. Qui è rivelatore della mente scientifica di Giuliano, entomologo per passione e vocazione professionale, che alla biografia è approdato per quell’esigenza di ricostruzione delle storie familiari che costituiscono insieme il puzzle dei ricordi parentali, dei cortili lombardi, di uno strapaese padano e delle piccole patrie, come dell’epopea operaia, ricca insieme dei legami della solidarietà e della volontà di potenza di chi si apprestava in quanto classe generale a cambiare il mondo e il suo destino.
Proprio nell’intersecarsi di queste differenti prospettive si annida il senso innovatore e il fascino della tranquilla saga familiare dei Trezzi. Ma proprio per questo la lunga storia della famiglia Trezzi pone un problema che a partire dalla quotidianità interroga gli orizzonti pregressi dell’ideologia. Quel riferimento al richiamo della foresta (quella delle ciminiere sestesi e del comunismo italiano durante la prima Repubblica) anche quando la foresta non c’è più.
Mi pare utile infatti suggerire una riflessione in grado di avviarci a misurare le distanze e le vicinanze tra l’epopea collettiva e la dura fatica di essere uomini e donne nella città operaia per antonomasia. Non soltanto per il gusto di riaffrontare i ruderi della memoria e gli incunaboli di tante storie minori, ma per riproporre un problema che anche nell’oggi non può essere affrontato a prescindere dai mille sentieri e dai mille ostacoli che uniscono e separano le umili esistenze personali – anche quelle dei “santi minori” – con gli scenari della storia maiuscola.
C’è un punto di sutura e una distanza che confrontano la vita di una famiglia operaia con quella della grande politica nazionale e internazionale. Proverei a dire così: il marxismo ignora la comunità e l’idea di comunità. Nella visione marxiana infatti la comunità si installa nei rapporti feudali, nei confronti dei quali il capitale svolge una funzione liberante, dissacrante, essenzialmente emancipatrice. Qui uno dei tanti fronti dove il marxismo degli inizi non lesina la valutazione positiva della funzione del capitale.
Una corsa inarrestabile, senza svolte, ripensamenti e apparenti possibilità di ritorno. Quel che non viene però affrontato è il bisogno di comunità che risorge una volta distrutti e superati i vincoli feudali. Il fatto cioè che l’esperienza insegna come non si dia una società coesa senza elementi di comunità. È il discorso che attraversa tutta la Germania degli anni Trenta e che trova in particolare in Tönnies il critico e il cantore.
Un discorso che la potenza operaia, tutta tesa a trasformare il mondo in senso socialista, può anche ignorare, ma che non può essere messo tra parentesi da chi, senza astenersi dalle lotte, sa perfettamente che anche il militante nasce e cresce in una famiglia. E anche la città delle fabbriche, la Stalingrado l’Italia, non ha fatto e non può fare eccezione alla regola.
Anche qui, dove una industrializzazione pesante – in ritardo rispetto agli altri Paesi europei – si distende per un tempo incredibilmente breve. Perché forse non è corretto parlare di “secolo breve” per la storia d’Europa, ma l’espressione di Obsbown calza perfettamente per Sesto San Giovanni, cittadella dell’acciaio (Mussolini), Stalingrado operaia, abitata – avrebbe scritto Mario Tronti – da una “rude razza pagana”. Perché anche qui le famiglie sono rapidamente passate nei decenni da una cultura e da una prospettiva confiscate dal mito della crescita, a un bisogno stressante di sicurezza come primo valore di chi vive in difesa. Una sorta di “catenaccio” (quello calcistico di Gianni Brera) applicato alla vita quotidiana e alla storia dell’Occidente in declino, sbatte tutti senza complimenti sul confine di un cambiamento epocale: quello che anche dal punto di vista della soggettività Mauro Magatti ha provato a descrivere nei suoi ultimi lavori.
Una città cioè “non si sa che”, che non è espressione superficialmente giornalistica, ma è stata introdotta nel lessico da Aris Accornero, uno dei maggiori tra i sociologi del lavoro. Il tutto tra due colate: la prima nel 1903, quando inizia l’epoca giolittiana; l’ultima, dell’agosto 1996, per ordine di Bruxelles. È questo lo spazio breve della “sestesità”.
Sesto sorge direttamente dai campi di granoturco, s’è detto in epoca giolittiana (1903 – 1911). Grazie al connubio di grandi capitali bancari ed industria pesante. E’ il primo esempio di siderurgia che scende in pianura, su di un sottosuolo ricco di falde acquifere, in una zona egregiamente servita dalla ferrovia. Costantino Corbari ha recentemente ricostruito la genealogia industriale di Sesto San Giovanni. “Nei primi mesi del 1903 la strada è aperta dalla Società Italiana Ernesto Breda. L’azienda inizia la propria attività con la costruzione di treni e trebbiatrici per poi passare alla produzione di proiettili e alla lavorazione dell’acciaio, fino alla realizzazione di motori per l’aviazione. Nei primi anni Quaranta i lavoratori della Breda sono circa 25 mila. La Ercole Marelli si insedia a Sesto nel 1905, avviando la produzione di apparecchiature elettromeccaniche, motori elettrici, generatori. Lo stabilimento Unione del 1906 è il primo realizzato dalla Società Anonima Acciaierie e Ferriere Lombarde, che solo nel 1931 prenderà il nome di famiglia della proprietà, Falck. Col tempo si aggiungeranno gli stabilimenti Concordia, Vulcano e Vittoria. Chiude la fase dell’arrivo a Sesto San Giovanni delle quattro grandi aziende, che hanno segnato la sua struttura produttiva, la Magneti Marelli. Viene creata da un reparto della Ercole Marelli nel 1919, con capitale sottoscritto in parti uguali dalla Ercole e dalla Fiat. La sua produzione si orienterà soprattutto verso impianti elettrici per il settore auto, moto, avio e radiotecnico.
Altre realtà significative sorgono in quegli anni sul territorio sestese. Sono le Pompe Gabbioneta, società fondata nel 1897, la Campari, marchio famoso nella produzione di liquori, in particolare del rinomato bitter, che apre i suoi impianti a Sesto nel 1902, e l’Osva, che nasce nel 1906 dalla fusione tra la Valsecchi e la Camona-Giussani, e che si specializzerà nella produzione di scaldabagni, cucine a gas e apparecchi sanitari. Solo dopo la conclusione della seconda guerra mondiale si insedierà a Sesto anche la Pirelli Sapsa, azienda del settore della gomma, che darà lavoro a un migliaio di persone. Saranno poi le fabbriche siderurgiche, meccaniche ed elettromeccaniche a dare il segno all’intero impianto industriale a Sesto, cui faranno corona numerose medie e piccole officine.” [4]
Grandi capitali, i Breda, i Falck, spiazzano dunque una tranquilla cattolicità rurale alla immediata periferia nord di Milano. Fin lì il ritmo dell’esistenza era ben diverso, in un ambiente costellato da sontuose ville patrizie e indubbiamente salubre: adatto al relax e a tranquille vacanze. Al punto che Vincenzo Monti, ospite del Manzoni, poteva scrivere “Oh beato di Sesto aer sereno”.
Commovente la reazione del parroco don Molteni che nel Liber Chronicus arrivava a preoccuparsi della sparizione delle cappellette della Madonna e della impossibilità delle processioni nei viottoli… Così diverso da quel Vescovo di Melfi che mi chiamò, alla vigilia dell’apertura del celebre stabilimento della Fiat, per una giornata di ritiro con il suo clero per valutare insieme opportunità e difficoltà dell’impatto della grande industria con la vita spirituale dei fedeli affidati alle sue cure pastorali.
Ma altre sfide non sarebbero mancate alla Sesto rurale di don Molteni, con l’importazione da fuori di mestieri e competenze. Quei serpentatori di Piombino ad esempio che trasferirono alla Breda Fucine le proprie abilità insieme ad una cultura anarchica ricca di canti di protesta.
Una città-test cresce e si agita dovunque intorno ai cortili dove le famiglie operaie conducono la loro vita grama. Cortili che spesso portano il nome di antiche cascine agricole, in grado di introdurre nei meandri di una città tutta industrializzata i legami di una solidarietà che ancora profuma di campagna. Così i sestesi restano ospitali a dispetto dei nuovi ritmi e delle nuove tecnologie: perché le antropologie sono più dure della tecnica. Anche se le scienze accademiche se ne sono talvolta dimenticate, ed è toccato alla Compagnia dei Legnanesi di Felice Musazzi farne insieme l’apologia e la parodia, conservandone comunque il sapore ed il senso.
Ci sono parole che persistono anche se consunte od eliminate dall’uso: solidarietà, gratuità, ospitalità, ascolto, “comunità”, appunto. Gli effetti collaterali di quello che qualcuno, non privo di imperizia, aveva ripudiato come “mercatismo”. Cosicché la prima mappa (la più antica che mi è capitato di vedere, ai Musei Vaticani) è del Seicento e la futura città del lavoro è segnata con un suo nucleo originario rurale: Ca’de Gatti.
A soccorrerci dalla storiografia minore sono spesso le tradizioni orali e le vecchie cascine. Ne ho contate fino al numero di 23. Mentre agli inizi della industrializzazione assommavano a una quindicina. Di esse la più grossa e famosa è la Torretta: una quarantina di famiglie che si trasferiranno col tempo in via Saint Denis.
A Cascina Gatti troviamo una latteria, meglio, una cooperativa del latte fondata nel 1930 da don Rotondi. Con una seconda gamba costituita dal Forno Sociale San Clemente. Cosa unisce latteria e forno? La decisione di calmierare il prezzo del latte e del pane. Un primo passo sulla via di una solidarietà che si organizza. E si narra che don Rotondi provò anche a calmierare la zootecnia, o meglio il prezzo delle carni, intervenendo sul prezzo dei foraggi, con una iniziativa che dura fino al dopoguerra.
Ecco dunque apparire una serie di binomi virtuosi: famiglie e comunità, territorio e solidarietà. La solidarietà del cortile. Una solidarietà che cresce man mano che le maglie del tessuto urbano si estendono. Una trasformazione che è ricostruita con brillante acribia da Laura Francesca Sudati in Tutti i dialetti in un cortile.
Si è già detto che le grandi fabbriche crescono direttamente dai campi del granoturco, a ridosso delle cascine. Non è soltanto un problema di genius loci. È un grande problema culturale ed etico. Mutano le radici e l’orizzonte delle relazioni sociali. Troviamo Società di Mutuo Soccorso in tutte le fabbriche, praticamente Casse di Solidarietà. Le loro carte fondative iniziano ogni volta con l’incipit: “Fratelli operai”…
Gira sui documenti il linguaggio di Prampolini e di Mazzini. Il lascito sociale di un Risorgimento che Mario Deaglio in Postglobal (gran libro) definisce nonostante tutto “provinciale”. La politica interviene con mano pesante: Di Rudinì scioglie nel 1998 la Società Cattolica di Mutuo Soccorso, ma non la Società Operaia, che pure aveva partecipato ai moti sui quali aveva cannoneggiato Bava-Beccaris. Seguono i processi. Alcuni sestesi vengono mandati al confino. Ovunque ci imbattiamo in forme organizzative mutualistiche che ripetono la compattezza degli aggregati rurali.
Ha scritto Giuliano Amato sintetizzando l’inizio del Novecento: “Un secolo si è aperto con le cooperative dei socialisti e dei popolari”… e si è chiuso con le privatizzazioni.
Anche la fabbrica produce, eccome, solidarietà. Tra persone che hanno provenienze diverse. Una forma di “solidarietà di mestiere”, anche se non corporativa. Si diceva: “Garantisco io: è un bravo ragazzo”. Solidarietà di fabbrica è insegnare il mestiere, lasciarselo “rubare” da parte dell’operaio “finito” dal giovane apprendista. Aiutarlo a fare il “capolavoro”, il pezzo cioè lavorato al tornio, senza del quale non viene assunto in quanto operaio. Né manca la “solidarietà generazionale” tra operai anziani e ragazzi. Un cosmo nel quale sul territorio la campagna e la fabbrica continuano a mantenere legami virtuosi, non soltanto culturali o d’inerzia.
Questo l’habitat nel quale i Trezzi si collocano. La comunità familiare e di cortile qui cresce e si dispone alle future metamorfosi. Il mondo rurale col suo radicamento religioso e talvolta magico sul territorio, la tradizione cristiana e la sua secolarizzazione nei rapporti di produzione e vicinato, una cultura differentemente consapevole di se stessa che si distende nel tempo e si attrezza alle nuove sfide, quando i grandi capitani d’industria venuti dall’estero porranno le condizioni per il rivolgimento totale di un mondo. Chi regge gli urti, li ammortizza e li metabolizza è proprio la famiglia popolare, quando non si ripara ed anzi si pone come parte attiva delle nuove relazioni, economiche, sociali, umane, che si confrontano con il destino della classe operaia, “in sé” e “per sé”.
Il microcosmo parentale subisce le scosse e le spinte del mondo in evoluzione, non senza fare la propria parte per attrezzarsi a questa evoluzione. È in questo quadro che la comunità ignorata dall’ideologia riproduce se stessa, non senza influssi sulla grande narrazione che dà senso alla persona dentro e fuori la fabbrica. La città operaia è la medesima che fuori dai cancelli della fabbrica impara e applica a suo modo le riflessioni di Gramsci, ben più attente al territorio e ai suoi soggetti di quanto non lo sia l’operaismo ruggente. Così locale globale si tengono, senza ancora trasformarsi in “glocale”.
Tutto comincia dalle prime filande attive a partire dal 1832: quelle che meritano il nome di piccola Manchester alla Sesto di allora. Quella Sesto che da borgo rurale si avvia a tappe forzate a diventare la città più industriale d’Italia. E qui Giuliano Trezzi pone la prima domanda a partire dal proprio microcosmo: “Che cosa ricordiamo della nostra infanzia?”
Ossia, che cosa hanno a vedere le nostre infanzie con il destino della città operaia? La memoria è soltanto cimelio e nostalgia di chi ha una qualche dimestichezza con la pagina, o elemento costitutivo dell’etica civile e delle sue parzialità? Credo sia il non detto della fatica di Giuliano Trezzi.
Si parte dai bisnonni, per approdare con un rapido décalage sui nonni, sia paterni che materni. Uno dei quali, il nonno paterno, aveva lavorato come operaio alla Strauss, la prima società di tessitura meccanica di nastri, insediata nel 1889 dall’austriaco Sigmund Strauss nel territorio agricolo di Sesto.
Il nonno paterno ha una sua originale pedagogia enologica, che prevede che anche ai più piccoli vada somministrato con l’acqua un po’ di vino. Dice Giuliano: “Mi ricordo che tagliava spesso le pesche o le mele nel bicchiere di vino”.
Quanto ai nonni materni, nonno Giacomo era molto apprezzato in paese, perché sapeva fare di tutto. Il suo vero lavoro era il falegname, ma venivano a casa a trovarlo anche per farsi cavare i denti… Quando eravamo piccoli anche mamma andava a lavorare come operaia alla magneti Marelli, per questo ci portava a casa della nonna, che allora abitava in Curt de la Balina nella centralissima via Dante.
Il ritratto di famiglia è aperto da papà in un piccolo mondo antico di vestiti modesti e visi sorridenti, del quale rendono buona testimonianza le foto in bianco e nero. Irrompe la guerra nella vita del babbo e in quella di tutta la famiglia, testimoniata da un disegno dove si vede la mamma che pensa alla Grecia con alle spalle lo sfondo del Parnaso. E al ritorno papà narrerà i disagi della tragedia della ritirata in Albania. Sei anni di guerra, gli anni migliori della vita di un ragazzo, con il rientro in Italia nel gennaio del 1942 per sposarsi. Non senza una profonda conversione: da profondo cattolico poco incline alla politica, a comunista ateo e “mangiapreti”. Quasi una parabola esemplare.
Con un particolare che non sfugge alla penna del figlio: il passaggio dalla banda musicale del Circolo San Clemente a quella dei comunisti. Ecco la famiglia operaia: abita in piazza Diaz al n. 14, al terzo piano di una casa di ringhiera, riscaldata con una stufa, con un gabinetto alla turca e assenza di vasca da bagno. Le vacanze – quando è possibile – ovviamente al mare di Rimini.
Anche nella vita quotidiana clericalismo e anticlericalismo hanno modo di scontrarsi. Il babbo non si tira mai indietro. Per i bambini ci sono le difficoltà scolastiche, non poco determinate dal fatto che in casa non circolava un libro e si parlava sempre in dialetto.
Non è assente l’aspetto propagandistico e perfino mitologico, che dilaga quando nel 1957 l’Urss inviò il primo satellite (lo Sputnik) intorno alla terra. “Mio padre mi prese per mano e mi portò sul cavalcavia che allora attraversava la ferrovia, congiungendo la stazione di Sesto al Rondò”.[5]
La quotidianità non manca di svolte: papà Mario decide improvvisamente di smettere di suonare e addirittura vende il clarino, passando all’allevamento dei canarini. Una vera mania, che non mancherà di suscitare qualche dissapore in famiglia.
C’è poi tutto l’universo del Partito Comunista nella sua versione quotidiana, “calda” anche nell’organizzazione: quella medesima che troviamo narrata con grande maestria da Giovanni Pirelli nei suoi romanzi. Tutto veniva vissuto come appartenenza ad una classe sociale, dove i proletari non avevano nazione, dove i Trezzi si sentivano casualmente nati in Italia, e in realtà e in coscienza si avvertivano parte del mondo degli sfruttati.
Qui nasce il rapporto con la cultura e con l’emancipazione personale attraverso di esse. “Bisogna saperne di più dei padroni per poterli combattere. Lenin diceva: studio, organizzazione e rivoluzione”.[6] Fa parte del corredo anche la scoperta di Darwin e dell’evoluzionismo.
Non manca nell’universo familiare un’altra figura della quotidianità sestese del tempo, “la zia”, in questo caso zia Maria, la sorella di papà, che abitava in via padre Ravasi, in una casa che veniva soprannominata “Il Vaticano”, per la forte presenza di inquilini democristiani.
C’è l’assedio delle zingare che si presentano all’ora di colazione dopo un invito del babbo, e c’è pure la pratica del lavoro nero, cui la famiglia risponde con tutta la sua coesione: “Sentivamo che ce l’avremmo fatta, perché la famiglia era compatta e unita”.[7] E anche i pidocchi, come da manuale, ogni tanto fanno la loro comparsa.
Il Sessantotto non porta soltanto il marchio di Mario Capanna e Marcuse, ma nella città operaia è un fatto della quotidianità che attraversa le famiglie, le terremota, le trasforma, le fa evolvere, non senza risparmiare i germi in qualche caso della tragedia violenta. Giuliano Trezzi fa parte dei “catanghesi”, “armato di spranghe e casco avevo la funzione di proteggere il corteo dai fascisti o dai poliziotti”.[8] Il ragazzo esce di casa e va a vivere da solo, con il babbo che gli dà una mano per il trasloco. Ma a quest’uomo così solerte non riuscirà di prendere la patente e, ripetuta negativamente per due volte la prova, si rassegnò a non guidare la macchina.
Poi l’annuncio del cancro, sull’uscio di casa. Qui la narrazione assume un tono dolente e raggiunge il linguaggio della grande letteratura: “Facemmo un funerale civile senza croce, senza bandiere e senza banda, in silenzio, per vie secondarie, quel silenzio dignitoso e libertario che gli altri non avrebbero voluto rispettare”.[9]
L’ultimo capitolo è interamente dedicato alla mamma. Operaia alla Società Turrinelli e in seguito alla Magneti Marelli, nella stessa fabbrica di papà. Come lui decisamente antifascista. Annota Giuliano: “Non so quanto tempo restò fidanzata con papà e come fu che si conobbero, la fotografia più vecchia li vede ancora giovanissimi intorno ai diciannove anni, prima che papà fosse richiamato a militare”.[10]
Scrive ancora Giuliano che mamma si arrabbiava spesso con noi e i ceffoni abbondavano, e che quando furono prodotte le prime lavatrici fu una delle prime cose che comperò. “Ricordo ancora la marca, era una Gripo, che si caricava dall’alto.”[11] L’unica sua lettura era la rivista “Grand Hotel”. Aveva paura del potere e si sentiva troppo piccola per combatterlo. E ancora: “Non so cosa pensasse della mia passione di studiare gli insetti”.[12]
E così anche il figlio conquista finalmente un angolino della scena, rammentando oltre alla passione scientifica, quella per lo sport, per il nuoto nel Geas, per il basket e l’atletica.
E la foto di gruppo si anima con addirittura due zie questa volta. È di nuovo al centro la mamma da vedova, alla quale il figlio annuncia l’intenzione di licenziarsi dalla banca per continuare a studiare. Difficile trovare l’accordo con chi ha fatto della vocazione politica, anche dentro il quotidiano, una scelta di vita, dove per Giuliano l’America Latina è il luogo dove ricaricare e mettere alla prova l’ideale.
Una sola pietra di paragone mi viene in mente: la bella autobiografia di Guido Viale,[13] leader di Lotta Continua, nella quale dà conto dei travagli familiari di un politico militante il giorno e la notte, costretto a misurare in ogni ora il privato con l’impegno pubblico, soprattutto nell’educazione di un figlio trascinato nelle redazioni dei giornali di sinistra e che alla fine pone lo stupendo quesito se non siano in questa fase storica i figli ad educare in buona misura i rispettivi genitori.
È ancora la mamma a tornare in campo nel capitolo conclusivo di Giuliano Trezzi. Una mamma che tiene insieme come sempre anche lei il privato e il pubblico, depositaria di una tradizione cittadina e familiare dove il confine tra la casa e la città sfuma ed è irrintracciabile. Per questo ad ogni elezione si premura di trovare sulla scheda la falce e il martello. E dove la mamma è orfana di una politica, il figlio si scopre orfano insieme di una famiglia e di una politica che in famiglia era sempre stata di casa.
Ora – e siamo all’ultima pagina – tutto è “usa e getta”, e un’intera generazione si sente senza identità e privata di qualcosa di cui ignora la vera sostanza. Aveva capito tutto Il Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria.
Scrivere è fare memoria, e la memoria è sempre e comunque collettiva, mai soltanto familiare. Un modo dunque per opporsi: perché la dissoluzione non l’abbia vinta.
Novembre 2013
Giovanni Bianchi
[1] Giuliano Trezzi, Cosa rimane, Grafica & Stampa sas, Milano 2012, pp. 118.
[2] Antonio Pizzinato in collaborazione con Saverio Paffumi, Viaggio al centro del lavoro, Ediesse, Roma 2012, pp. 318.
[3] Lionello Turrini, Un prete si fa raccontare. Intervista a don Luigi Oggioni, Associazione Padre Monti, Saronno 2012, pp. 209.
[4] Costantino Corbari, Dall’oratorio alla fabbrica, Bibliolavoro, Sesto San Giovanni 2007, pp.14 -15.
[5] Giuliano Trezzi, Cosa rimane, op. cit., p. 43.
[6] Ivi, p. 52.
[7] Ivi, p. 60.
[8] Ivi, p. 69.
[9] Ivi, p. 75.
[10] Ivi, p. 83.
[11] Ivi, p. 85.
[12] Ivi, p. 89.
[13] Guido Viale, A casa, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2001, pp. 190.